Per decine di anni ha rappresentato il centro della vita di Favignana. Adesso lo “stabilimento”, come lo chiamano i favignanesi, è diventato uno scrigno di storia e memoria, anche attraverso due interessantissime esposizioni.

Appena si varca il portone dello stabilimento si ha la percezione della straordinarietà del luogo. “L’industria domina la forza” è questa la frase che attornia il leone adagiato sull’ingresso, quasi a chiarire che non siamo di fronte ad una tonnara qualunque, ma un luogo che voleva essere fabbrica, nel senso più classico del termine. Storie di padroni e lavoratori, storie di speranze e di lotta.

Lo stabilimento, fondato dai Florio e poi passato ai Parodi di Genova, è stato il cuore pulsante di una intera comunità insieme alla “camparìa”. Da quest’ultima partivano le barche dei “tonnaroti” mentre in fabbrica si realizzava l’inscatolamento. Un incontro straordinario tra le antiche tradizioni della pesca del tonno e le moderne innovazioni tecnologiche introdotte dai Florio, che, di fatto, inventarono l’inscatolamento. Da una parte una fabbrica, dall’altra la ritualità sciamanica del “rais” e dei suoi uomini.

Lo stabilimento è imponente, non a caso veniva chiamata la “Fiat delle Egadi” e le mura respirano della fatica e del sudore di donne e uomini che lì dentro hanno trascorso decine di anni. Fin da bambini, e per tanti fino alla pensione.

Nei locali dell’ex stiva, la video-installazione “Torino” – così veniva chiamato lo stabilimento a creare un legame con la grande città industriale del nord-  realizzata da Renato Alongi insieme con Rosario Riginella, Massimo Mantia, Gianni Gebbia, Bruno Fundarò, Marco Scirè, e Patrizia Cirino racconta le testimonianze di favignanesi le cui vite sono indissolubilmente legate allo stabilimento. Il lavoro di ricerca e di raccolta delle testimonianze orali ha prodotto un risultato straordinario.

Dal buio di quella immensa sala, appena entrati, si è colpiti da un brusio di voci. Diciotto anziani, proiettati a corpo intero su schermi posti sotto le campate, raccontano la loro storia. Quel brusio da il senso del frenetico movimento che doveva attraversare quello spazio e gli ambienti vicini, che si fanno memoria vivida nei volti rugosi di testimoni diretti.

Lo stabilimento per tanti ha rappresentato la fuga dalla povertà, un salto in una dimensione industriale per contadini, cavatori, ragazze da marito che, nella fabbrica, hanno trovato salario, lavoro e libertà. Ma anche gerarchie, orari massacranti, sindacati. Un profondo rispetto per i padroni, ma anche la consapevolezza dell’importanza del loro lavoro nella “catena di montaggio” del tonno. Questi vecchi, alla fine del loro percorso, si sono sentiti parte di un organismo, di una storia collettiva. Gli orari e la fatica del lavoro erano ripagati, non solo dal salario, ma anche dalla convinzione del valore di quello che facevano.

Una signora che regge orgogliosamente su un girello racconta con quale perizia metteva i pezzi di tonno nelle scatole perchè, aprendole, avrebbe goduto la vista ancor prima del palato. Togliendosi la giacca e restando in maniche di camicia, un signore si disegna giovane diciottenne impegnato a tagliare una quantità di chili di tonno che ci appare smisurata per un uomo. E poi ci sono le figlie da sposare, le feste comandate, la religiosità arcaica. Un incrocio di destini personali ed esperienza collettiva che, forse, solo in una fabbrica trova il senso nel sudore condiviso.

Sudore misto a sale, acqua e sangue è invece quello dei “tonnaroti”. Gli uomini che sotto la guida attenta e carismatica del “rais” offrivano la materia prima al ciclo produttivo dello stabilimento.

Tanto moderna la fabbrica, tanto ancestrali i riti della pesca del tonno. La posa dell’isola una sequenza di reti fisse, fissate al fondale su indicazioni del “rais” lungo le rotte dei tonni. Da una rete all’altra, fino al coppo, la rete con un fondo a trama strettissima, sui cui quattro lati si mettevano le barche dei “tonnaroti” per celebrare la “mattanza”. Una parola che ha assunto un significato negativo, spesso correlata a stragi e a violenze criminali.

Nei racconti dell’ultimo “rais”, Gioacchino Montalto, morto poco meno di un mese fa e nei ricordi di un popolo la “mattanza” è un’altra cosa. Un rito antico celebrato dal “rais” una via di mezzo tra il sacerdote e lo sciamano, caratterizzato da riferimenti cristiani e arabi, propiziatorio nella misura in cui dal suo esito dipendeva la vita di una intera comunità.

I colori forti dei dipinti di Enzo Di Franco, ospitati in una delle sale dello stabilimento, restituiscono il racconto delle gesta dei “tonnaroti”. “Non c’era violenza, ma rispetto dei tonni che venivano presi molto adulti, alla fine del loro ciclo di vita e dopo che avevano deposto le uova”, spiega Di Franco. Nelle oltre sessanta tele i muscoli e le espressioni dei “tonnaroti” danno il senso di una lotta per la sopravvivenza. In quei movimenti, in quelle prese c’erano le aspettative di un popolo. “Dall’esito della mattanza dipendeva la fortuna di quell’anno. Per tutti: dai padroni a ciascun favignanese”, sono le parole che risuonano in più di uno dei testimoni della video-installazione.

Impossibile, e forse sbagliato, giudicare con criteri contemporanei un’epopea quella della pesca e della trasformazione del tonno, che i più anziani dell’isola ricordano con malinconia. “A quei tempi Favignana era una comunità fondata sul lavoro, accomunata da speranze e dalla volontà di costruire una storia condivisa. Oggi no.” Ci spiega un giovane papà che ha deciso di rimanere sull’isola.

Usciti dallo stabilimento di fronte ad un turismo frenetico e spesso inconsapevole dei luoghi e delle storie, è facile comprendere le parole di quel giovane e la nostalgia dei vecchi.